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17. Interazione radiazione-materia e nascita della fisica quantistica

Nelle precedenti sezioni abbiamo avuto modo di vedere come nei primi decenni del Novecento si sono sviluppate le idee sulla costituzione dell’atomo, a partire da evidenze sperimentali che risultavano inspiegabili nel quadro della fisica classica (cioè la meccanica newtoniana e l’elettromagnetismo sintetizzato da Maxwell nelle sue quattro celebri equazioni). In effetti la problematica era di più ampia portata in quanto, a cavallo tra Ottocento e Novecento, si era accumulata una serie di risultati di esperimenti che metteva in crisi il modello sino ad allora accettato della interazione tra le onde elettromagnetiche e la materia, anche questo basato sulle leggi della fisica classica. Dal 1865, anno in cui Maxwell pubblicò la sua teoria dell’elettromagnetismo, cominciò una serie di esperimenti volti a verificarne le previsioni; in particolare quelle relative all’esistenza delle onde elettromagnetiche. Questi esperimenti (a opera di Hertz, Hallwachs, Lenard) portarono come “sottoprodotto” alla scoperta dell’effetto fotoelettrico. L’esigenza di spiegare tale fenomeno, le cui caratteristiche  non trovavano adeguata spiegazione nell’ambito della fisica classica, portò Einstein nel 1905 a formulare una teoria dell’effetto fotoelettrico basata sull’assunto che la luce, nell’interazione con gli elettroni di un metallo, si comporti come se fosse costituita non da onde, ma da “pacchetti indivisibili” (successivamente denominati fotoni) ciascuno avente energia \( E=h \nu \) , essendo \( h=6.6×10^{-34}Js \) una costante detta di Planck\( \nu \)  la frequenza della luce considerata come onda elettromagnetica.

In effetti l’idea che lo scambio di energia tra radiazione elettromagnetica e materia avvenisse in maniera “discreta” (termine qui utilizzato come contrario di “continua”) era stata introdotta un lustro prima, nel 1900, da Max Planck, al fine di spiegare le caratteristiche osservate in relazione alla radiazione emessa (e assorbita) da un corpo a causa della sua temperatura più o meno elevata (ad esempio un pezzo di ferro reso incandescente). L’inspiegabilità di tali caratteristiche nell’ambito della teoria classica dell’interazione radiazione-materia è nota come problema del corpo nero. Planck ipotizzò che sulla superficie del corpo ci fossero una miriade di piccoli oscillatori elettricamente carichi (gli elettroni, scoperti pochi anni prima da Thomson) che interagivano con la radiazione, assorbendola ed emettendola. Fin qui niente di rivoluzionario… anche per il 1900. Il colpaccio di genio Planck lo ebbe ipotizzando che ciascuno di tali microscopici oscillatori potesse assumere non qualunque valore di energia compatibile con i suoi parametri, ma solo alcuni specifici valori del tipo \( E_n=nhf \), dove \( f \) è la frequenza caratteristica di vibrazione libera dell’oscillatore (pensiamo ad esempio a un sistema massa-molla) e n può essere un qualunque intero positivo. In altri termini, Planck ipotizzò che l’energia degli oscillatori fosse quantizzata, cioè potesse variare solo sotto forma di multipli di un “pacchetto base”. 

L’ipotesi di Planck circa la quantizzazione dell’energia degli oscillatori (lato materia, dunque) è concettualmente molto diversa da quella di Einstein circa la quantizzazione dell’energia della radiazione. Tuttavia, poiché gli effetti di queste presunte quantizzazioni erano osservabili solo nel momento in cui la radiazione interagiva con la materia, entrambe portavano all’idea che lo scambio energetico radiazione-materia fosse quantizzato. I “pacchetti” di questo scambio sono quelli che oggi chiamiamo fotoni. A tal proposito è opportuno richiamare che questa denominazione non fu introdotta da nessuno dei due, ma venne coniata durante gli anni Venti del secolo ed entrò nel lessico scientifico ufficiale solo nel 1927, anno in cui venne attribuito il premio Nobel ad Arthur Compton per la scoperta di un fenomeno che dimostrò in maniera inconfutabile la natura quantizzata della luce nella sua interazione con la materia. Tale fenomeno è oggi noto come effetto Compton. A titolo di curiosità etimologica, ricordiamo che quasi unanimemente si ritiene che a coniare il termine fotone sia stato nel 1926 non un fisico, ma un chimico (o meglio, un chimico-fisico): l’americano Gilbert Lewis, lo stesso che propose l’idea di legame chimico covalente.

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